Lancia. Un sogno italiano

Dopo 5 anni di unione civile, Fiat e Chrysler stanno arrivando alle nozze definitive con un’attesissima fusione ormai prossima e un nuovo ambizioso product plan.

Per quel che riguarda i singoli marchi si prevede un rilancio mondiale di Jeep, un’offensiva sull’alto di gamma con Maserati, un graduale riposizionamento di marchi intermedi quali Dodge/Ram, Chrysler e Fiat stessa, un costante sviluppo di Ferrari (gioiello della corona Fiat) e, soprattutto, una vera e proprio rivoluzione per quella che è la cenerentola del gruppo: Alfa Romeo.

Tale marca, molto apprezzata dagli appassionati, ma poco capita dai dirigenti, avrà l’improbo compito di tentare di ritagliarsi uno spazio nella ristrettissima élite dei marchi premium finora dominata da tre giganti nati tra la Baviera e il Baden-Württemberg e cioè Bmw, Mercedes e Audi.

Tra i commenti entusiasti controbilanciati da bocciature totali, pochi si sono accorti dell’assoluto silenzio sceso su di un marchio che ha fatto, senza grande rumore, la storia (motoristica e non solo) del nostro altalenante paese: Lancia.

Per tale marca è prevista la graduale uscita da tutti i mercati al di fuori di quello italiano e la riduzione della gamma ad un singolo modello, la Ypsilon, di grande successo all’interno degli ormai limitanti confini nazionali nonché erede di una feconda genealogia automobilistica iniziata con l’Autobianchi A112 e, solo in un secondo momento, ereditata dal marchio Lancia. That’s it.

Non è chiaro se, in futuro, si preveda di dare una seconda chance alla casa di Chivasso o se, più probabilmente, alla fine del ciclo vitale della piccola Ypsilon, si spegnerà definitivamente la luce sui suoi gloriosi 108 anni di storia.

Parliamoci chiaro, la Lancia è una presenza fantasma ormai da decenni e non per scelta dell’attuale dirigenza.

I grandi capi Fiat l’hanno azzoppata premeditatamente con una costante riduzione della gamma e gravi errori di posizionamento sorti, soprattutto, in seguito all’acquisizione di Alfa Romeo nel 1986.

Fu una decisione politica, figlia di tempi molto diversi dagli attuali.

Per evitare che un costruttore straniero entrasse in Italia, la Fiat si ritrovò a possedere due marche storicamente in competizione senza sapere esattamente cosa farsene.

Nell’indecisione le affossò entrambe.

Ma se per Alfa, come si è visto, nonostante i molti errori, è rimasta una vena vitale, per Lancia questo non è successo.

Per evitare la competizione interna si decise che la casa di Arese sarebbe diventata il marchio sportivo del gruppo, mentre Lancia avrebbe dovuto rappresentare l’eleganza e il comfort.

Ma questo voleva dire spogliarsi di quella sportività che era insita nella sua storia e, strategicamente, fu un suicidio.

Perfino le persone anziane vogliono auto che, almeno da un punto di vista “aspirazionale”, siano sportive e li facciano sentire giovani.

L’eleganza da sola non basta a vendere un’automobile, soprattutto se si riduce a qualche orpello barocco e posticcio sul corpo di una vettura popolare.

Il risultato è stato un totale snaturamento dei valori del marchio e la perdita quasi definitiva di un attributo essenziale per le aziende del settore, la brand awareness.

Diciamolo chiaramente, il grande pubblico internazionale ormai non sa nemmeno che Lancia esiste e un suo rilancio a tutto tondo sarebbe costosissimo oltre che difficile.

È quindi abbastanza logica la mossa di disfarsene e puntare tutto su Alfa che qualche chance in più la potrebbe avere.

Se il cervello dice questo, il cuore invece non può che dispiacersi per la scomparsa di un un’entità dal valore emotivo fortissimo.

Parliamo di un’azienda che, in varie epoche, ha innovato tecnicamente come poche altre e ha avuto successi sportivi strepitosi.

Ma quello che più mi sta a cuore è sottolineare cos’ha, essa, significato per generazioni di persone che non hanno mai creduto che le automobili siano dei semplici oggetti utili solo a muoversi da un posto all’altro.

La costruzione di un brand automobilistico con dei valori emozionali precisi è quanto di più difficile esista in un settore complesso come quello automobilistico, dominato spesso da dinamiche che vanno al di là del semplice rapporto qualità/prezzo.

Coreani e giapponesi è decenni che tentano di creare quel fondamentale patrimonio intangibile di riconoscibilità del marchio e continuano a fare fatica, mentre noi buttiamo alle ortiche quanto di più prezioso abbiamo.

Ma quali erano, quindi, in termini emozionali, i valori della marca Lancia?

L’eleganza sicuramente, ma anche l’innovazione tecnica e la sportività.

La sua dinamicità era di natura, però, radicalmente differente rispetto a quella di un’Alfa.

Quanto queste ultime erano sfacciate e dirette, tanto le prime erano composte e un po’ complicate.

Avevano un gusto antico pur essendo moderne, ricordavano un’Italia perduta e un modo di vedere la bellezza pudico e mai chiassoso, lontano anni-luce dagli eccessi attuali e per questo, forse, non più comprensibile.

La divisione in alfisti e lancisti non era semplice partigianeria, era una divisione filosofica tra modi vicini, ma allo stesso tempo antitetici, di vedere una comune passione.

Se l’Alfa era travolgente, latina e conturbante, la Lancia era sofisticata, fine ed elegantemente sexy.

Non era meno mediterranea, era meno sfacciatamente mediterranea.

E non era neanche meno virile; era il Marcello Mastroianni dei marchi automobilistici: bello e un po’ complicato, abbastanza sicuro di sé e della sua mascolinità da non dover fare lo spaccone per dimostrarla.

Va da sé che la Lancia seduta e un po’ barocca degli ultimi anni (pur con delle notevoli eccezioni) era ormai l’involuzione di questo concetto un po’ sfuggente di forza e bellezza.

Un triste ripiegamento di un marchio ormai incompreso dai più giovani e definitivamente violentato dal “rimarchiamento” forzato di barconi americani di provenienza Chrysler che si sono visti negli ultimi 3 anni.

Questo sì, un errore grossolano di Marchionne.

Eppure, i veri appassionati, in qualunque paese, ricordano benissimo cos’è stata la Lancia, tanto da annoverare suoi modelli tra quelli più significativi nella storia dell’automobile.

E non può che sentirsi un brivido quando si sentono nominare vetture che hanno preso in prestito nomi di lettere greche o di strade consolari romane.

Anche questo un segno del loro classico ed eterno appeal.

Come già detto, è difficile che rivedremo una Lancia vera, una marca che con la dignità del nobile piemontese decaduto ma fiero è destinata, con la sua fine, a lasciare un vuoto che parla al paese intero, alla sua passata intraprendenza e al suo attuale mortifero torpore.

Il futuro sarà rosso Alfa anziché blu Lancia e questo, comunque, resta un barlume di speranza per chi crede nell’Italia e nella sua capacità di fare cose che altrove non si possono fare.

Per questo, augurando al neonato gruppo Fca di riuscire a rilanciare a dovere l’altrettanto magico marchio milanese, spero anche che, se Lancia non può sopravvivere, almeno non venga svenduto il nome a qualche imprenditore cinese che lo riutilizzi in modo improprio come già successo con alcuni splendidi marchi inglesi dopo il crollo dell’industria automobilistica d’oltremanica.

Giacomo Fabbio

Cittadinanza Europea in vendita

“Il denaro parla in un linguaggio che tutte le nazioni comprendono.”
Aphra Behn, The Rover, 1677/81

La citazione di oggi è dedicata alla Republica di Malta, la quale ha recentemente approvato una legge che permette di “vendere” la cittadinanza maltese (e quindi quella europea) a chiunque sia disposto a pagare €650,000.

Interpellata in proposito, la Commissione Europea ha fatto sapere di non aver alcun potere per poter vietare a Malta o a qualunque stato dell’Unione di concere la propria cittadinanza nelle modalità e nei tempi che ritiene maggiormente opportuni.

Secondo EUobserver.com, Malta avrebbe calcolato di poter guadagnare fino a €300 milioni all’anno quando il nuovo sistema per la concessione della cittadinanza sarà pienamente operativo. I beneficiari dell’iniziativa sarebbero per lo più facoltosi investitori.

Nel frattempo, migliaia di stranieri residenti in Italia (come in altri paesi dell’Unione) da svariati anni, che parlano la lingua della nazione e contribuiscono al suo benessere, non solo pagando le tasse, ma contribuendo in generale al bene della comunità restano in attesa…

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Ripensare i mezzi di trasporto pubblici in vista dell’Expo 2015?

Il rapporto conflittuale tra gli italiani e i mezzi di trasporto pubblico è ben radicato nell’immaginario collettivo. L’indice di questo sentimento di amore e odio è visibilmente riscontrabile nell’impatto catastrofico che uno sciopero dei mezzi pubblici può avere sulla vita del cittadino medio.

Volendo soffermarsi maggiormente sulle potenzialità di innovazione piuttosto che sul diffuso malcontento, l’imminente avvento dell’Expo2015 di Milano rappresenta sicuramente un’occasione importante per ridisegnare e ripensare il rapporto tra cittadino e mezzi di trasporto a livello urbano, partendo proprio dal cuore pulsante della mobilità del nostro paese.

In questi giorni si continua a parlare del possibile impatto che la mafia avrà sull’evento e come al solito si dibatte sul fatto che, per combattere il fenomeno, si debba partire da una rivoluzione degli spiriti (o degli usi e costumi, a dir si voglia), prima di arrivare a un’efficace dell’applicazione delle leggi.

E se questa volta si partisse proprio dai trasporti pubblici? Un cittadino che vive meglio il tempo all’interno dei mezzi pubblici, non è forse anche un cittadino che apprezza, rivendica e rispetta maggiormente un servizio migliore? L’innovazione e una richiesta coscenziosa non potrebbero quindi portare a premiare la qualità negli appalti, limitando le infiltraziosi mafiose?

A riprova di quanto possa essere semplice cambiare prospettiva, abbiamo deciso di riportare come esempio il Subway Dance Party di Toronto, che quest’anno giunge alla settima edizione. A quando la prima milanese?

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Tra amore incondizionato e accettazione incondizionata

Nonostante i traguardi legislativi raggiunti negli ultimi mesi nel resto d’Europa, il dibattito sull’omosessualità in Italia si riduce molto spesso a un fenomeno di costume, più attento a commentare i protagonisti (o i grandi assenti) del Gay Pride, che non ad affrontare il lato umano dell’argomento. La mancanza di coraggio e iniziativa da parte dei vari ministri delle pari opportunità che si sono succeduti nelle ultime legislature, non rende certo giustizia alla tradizione storica di un paese aperto e tollerante.Come spesso accade, la pratica sociale ha superato di gran lunga l’acume del legislatore.

Accanto al vuoto legislativo, rimane anche però il silenzio sull’aspetto emotivo dell’omosessualità. Un recente intervento del giornalista Andrew Solomon al TED (l’organizzazione no profit che promuove idee innovative) sulla questione mi ha particolarmente colpito. Durante il suo intervento viene presentato il difficile passaggio tra amore incondizionato (quello di una madre per il figlio) e accettazione incondizionata (quello della madre per un figlio diverso dalla proprie aspettative). E tramite questo parallelo, il dibattito sull’omosessualità viene espanso in generale a tutto quello che è diverso dalla norma e dalle aspettative della società.

La concluse del ragionamento presentato mi è apparsa particolarmente realistica e “umana” sotto tutti i punti di vista e quindi meritevole di essere promossa. Nell’Italia che vorrei, questi sono i ragionamenti che mi piacerebbe sentire non solo su internet, ma anche in TV, sui giornali e..chissà…forse un giorno anche dai nostri politici.

E se all’Italia servisse una decrescita serena?

Il motto preferito da tutti i governi che si sono alternati negli ultimi anni (per altro gli unici conosciuti dalla generazione post-DC) vede come protagonista la necessità di rilanciare la ricrescita economica nel bel paese. Dalle parole ai fatti: nel corso dei primi sei mesi di mandato, ognuno di questi governi (indipendentemente che fosse di destra, di sinistra o di larghe intese) ha lanciato un piano per la crescita e lo sviluppo che, negli anni a seguire, si è arenato nei buoni propositi e slogan politici di coloro che poi hanno imposto alla fine di ogni anno leggi di bilancio titubanti e manovre restrittive. Mai come adesso i tentennamenti di una classe politica opaca e poco visionaria ha danneggiato le piccole e medie imprese che da sempre rappresentano il motore pulsante della nostra società, quei fautori del made in Italy che ci ha resi competitivi e protagonisti all’estero anche in tempi di crisi.

A questo punto la domanda sorge spontanea: e se l’Italia avesse bisogno di una decrescita serena?

Accettare un ridimensionamento dei canoni legati all’idea di benessere percepiti Italia, che rispecchi più chiaramente la realtà del nostro paese, non servirebbe forse a raggiungere il duplice obbiettivo di rimettere in discussione l’intraprendenza delle nostre imprese e a togliere la pressione sui cittadini per portarli a una visione più oggettiva e proporzionata dei proprio consumi?

Senza dubbio una società più consapevole dei propri mezzi e delle proprie capacità affiancata da un settore privato maggiormente stimolato a rimettersi in gioco porterebbe a una crescita più stabile e duratura.

Perché tutto ciò fa paura alla nostra classe politica?

La nostra società ha legato il suo destino a un’organizzazione fondata sull’accumulazione illimitata. Questo sistema è condannato alla crescita. Non appena la crescita rallenta o si ferma è la crisi, il panico. 

Per permettere alla società dei consumi di continuare il suo carosello diabolico sono necessari tre ingredienti: la pubblicità, che crea il desiderio di consumare, il credito, che ne fornisce i mezzi, e l’obsolescenza accelerata e programmata dei prodotti, che ne rinnova la necessità. 

La pubblicità ci fa desiderare quello che non abbiamo e disprezzare quello che già abbiamo. Crea incessantemente l’insoddisfazione e la tensione del desiderio frustrato. 

Siamo diventati dei “tossicodipendenti” della crescita. con

Se la crescita producesse automaticamente il benessere, dovremmo vivere in un vero paradiso da tempi immemorabili. E invece è l’inferno che ci minaccia. 

La nostra sovracrescita economica si scontra con i limiti della finitezza della biosfera. La capacità rigeneratrice della terra non riesce più a seguire la domanda: l’uomo trasforma le risorse in rifiuti più rapidamente di quanto la natura sia in grado di trasformare questi rifiuti in nuove risorse.

– da Breve trattato sulla decrescita serena, Serge Latouche (Economista e filosofo francese), Vannes 1940

Papaveri e Cemento

Mentre la politica italiana sembra paralizzata dallo scontro continuo e perfino le nuove forze in campo sembrano incapaci di ambire ad un cambiamento costruttivo, c’è un paese che affonda nei suoi errori e nella sua mancanza di prospettiva. Tra tanti di questi errori sistematici e culturali che si continuano a commettere ce n’è uno che, negli ultimi anni, ha guadagnato una certa risonanza mediatica, sto parlando della cosiddetta cementificazione.

Quest’orribile neologismo nasconde un altrettanto orribile significato che, in sintesi, possiamo descrivere come la tendenza a costruire case, capannoni, alberghi o quant’altro senza osservare nessun criterio di preservazione della natura e del paesaggio, di pianificazione urbanistica, di estetica e perfino di funzionalità, logica o sostenibilità economica nel lungo periodo.

Non parliamo di un fenomeno tipicamente italiano, le dinamiche dell’urban sprawling sono note e studiate da decenni in tutti i paesi industrializzati ma noi abbiamo l’aggravante di vivere in un paese che, da secoli, è ammirato proprio per la bellezza dei suoi scorci e per il felice dialogo tra le sue città e le loro campagne. Roma non sarebbe Roma se non fosse inserita nel suo ben noto contesto ambientale, l’agro con le sue ville antiche lungo le strade consolari che lo solcano da un paio di millenni, i Castelli, la costa. Allo stesso modo, in epoca rinascimentale, i viaggiatori stranieri rimanevano estasiati, usciti da Venezia e dal suo corredo lagunare, nel trovare una rigogliosa campagna interrotta da splendide ville palladiane posizionate strategicamente lungo le strade principali. Ma lo stesso si può dire di Firenze col Valdarno e i colli che l’attorniano, Napoli col suo splendido golfo e di tutti i centri noti e meno noti del nostro, pur sempre affascinante, paese.

Questa corsa alla distruzione è frutto di una serie di variabili molto diversificate che vanno dalla storica polverizzazione degli insediamenti abitativi alla concentrazione delle attività umane nelle strette e tutto sommato poco estese aree pianeggianti e costiere fino al mero interesse economico di un’industria edile con pochi scrupoli. Finché eravamo un paese povero e le tecniche di costruzione non permettevano il gigantismo odierno, la situazione rimaneva accettabile; dagli anni ’50 ad oggi, con gli stravolgimenti sociali ed economici avvenuti, la situazione è esplosa e, anche se in ritardo, l’esigenza di trovare una soluzione è diventata improrogabile.

Sulle conseguenze negative di questo fenomeno è inutile soffermarsi più di tanto, essendo  ormai ben note. Oltre all’uso esagerato del territorio in senso quantitativo, gli effetti sono enormi anche sulla gestione dei trasporti pubblici con conseguente uso prevalente dei mezzi privati (maggiormente inquinanti), sui costi maggiori di allacciamento alle infrastrutture pubbliche, sul controllo idrogeologico del territorio e non ultimo, da un punto di vista sociologico, sulla perdita d’identità delle singole realtà e delle genti che vi abitano.

Nella vastità dell’argomento, ci si sofferma quasi sempre ad analizzare la fenomenologia più evidente, quella delle grandi strutture commerciali o industriali mentre altrettanto grave è, a mio vedere, il problema della proliferazione indiscriminata delle abitazioni private. Questa problematica è più silenziosa e più legata all’animo del paese, al desiderio, questo sì molto italiano, di possedere un piccolo feudo personale il più lontano possibile dagli altri. Così, anziché vivere in un appartamento in un dignitoso condominio si preferisce costruire lottizzazioni sterminate di villette anche appena al di fuori dei centri urbani e, nei piccoli centri, dove invece la casa singola sarebbe giustificata, non si costruisce concentricamente partendo dalla piazza del paese, si preferisce piazzare la casa senza uno schema, in mezzo alla campagna, sia mai che mi tocchi salutare il vicino quando esco  la mattina.

Nonostante la densità e senza comunque andare a discapito del giusto sviluppo economico e sociale del paese, si poteva comunque preservare la compattezza dei centri abitati, mantenendoli separati l’uno dall’altro, com’era sempre stato, da qualche chilometro di campagna o bosco. Questo semplice accorgimento urbanistico avrebbe mantenuto, in un territorio comunque fortemente antropizzato, una certa sensazione di ordine e una maggiore facilità di gestione, oltre al già citato senso di corretta compenetrazione tra costruito e natura.

Va detto che, al 2013, si iniziano a vedere timidi segnali di cambiamento da un punto di vista normativo; si cerca, almeno in linea teorica, di evitare di sprecare ulteriore territorio e, ove possibile, di riadattare l’esistente, ma tale rivoluzione culturale è lenta ad affermarsi. Fino ad oggi, invece di restaurare un palazzo in centro, si preferiva costruire ulteriormente in periferia; con una buona legislazione che blocca ulteriori interventi nelle zone periferiche, si può evitare in un colpo solo sia lo spreco di territorio che il deperimento dei centri storici, due facce della stessa medaglia. Siamo al punto, però, in cui diventa necessaria, in alcuni casi, non solo un’azione preventiva ma, oramai, anche un’azione correttiva.

Il dibattito su questi temi è, purtroppo, reso sterile da posizioni troppo estremiste, si passa dal voler costruire indiscriminatamente in ogni dove al desiderio, ben rappresentato da molte associazioni “green”, di bloccare qualsiasi progetto utile o meno che sia. E va sottolineato anche questo, la lotta alla cementificazione indiscriminata non equivale ad un’insensata crociata contro la modernità. Una nuova strada (e ancora meglio, una nuova ferrovia) non è necessariamente una cosa negativa, lo può essere se quella strada la costruisco senza accorgimenti ambientali, dove non è necessaria, per rispondere ad interessi privati o se la uso come scusa per costruirci attorno nuovi insediamenti ma non di per sé. Perfino un centro commerciale se appropriatamente inserito nel contesto socio-economico e urbanistico-viabilistico di una città non è di per sé negativo. E nemmeno un grattacielo a Marghera, Porta Nuova o nel Centro Direzionale di Napoli.

L’obiettivo è costruire un futuro sostenibile per i nostri territori non un ritorno ad un passato mitizzato. Il rischio è anche di perdere ulteriore competitività nei confronti di altri paesi meglio organizzati e non impauriti dal progresso. Bisognerà costruire di meno, sì, viste anche le dinamiche economiche e demografiche in corso ma, soprattutto, costruire meglio e nei posti giusti e imparare a riutilizzare ciò che, col tempo, è divenuto obsoleto. Bisogna essere consci di vivere in un territorio finito e avere rispetto per esso e per quanto è stato fatto di giusto su di esso, dai nostri avi. La cementificazione selvaggia ha gli effetti sconvolgenti di una lenta e meschina bomba atomica con cui stritoliamo, con le nostre stesse mani, i luoghi a noi cari e le nostre stesse vite e possibilità di sviluppo personale.

G. Fabbio

Citazione

Citazione del giorno

Ciò che gli osservatori politici interpretano come indifferenza dell’elettorato può rappresentare, al contrario, un salutare scetticismo nei confronti di un sistema politico in cui la menzogna e la frode sono diventate una prassi abituale ed endemica.

Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, 1979

Mai così vero come in queste ore di attesa per la scelta del Presidente della Repubblica.